7 giu 2015

Volevo essere Janis Joplin

Chissà cos’era l’Amore con il suo atteso e sospirato Principe azzurro, il batticuore isteriko-nevrotico delle compagne di classe, i Marco-ti-amo-forever-ciccipucci che impazzavano nei muri dei corridoi, nella facciata della scuola e nei diari a scritte tridimensional graffiti. Il ragazzino imbellettato profumato sorriso Durbans 74 denti: storti. Motorino tirato a lucido più del bomber che indossava. Il primo bacio con ore di ginnastica linguo-facciale allo specchio. 
Io amavo Christiane F. e tutti i ragazzi dello zoo di Berlino. 
Avevo il mal di pancia, i crampi allo stomaco in un movimento spastico-circolare al basso ventre: le mie emozioni un eccesso, distruttive, i miei orgasmi hanno sempre avuto un qualcosa di doloroso. 
Tossica nell’anima. Avrei voluto essere Janis Joplin. Ascoltavo e suonavo Jimi Hendrix. Avrei voluto un cazzo enorme. Fottere il mondo intero. 
Accadeva che le cose che più desideravo, a forza di desiderarle così tanto, ad un certo punto, non le ho più desiderate. Dopo aver lottato, pianto, sofferto, essermi disperata.. Ad un certo punto, dico ad un certo punto, scattava un meccanismo perverso accompagnato da un forte senso di rifiuto, nausea e vomito. Claustrofobia. Somatizzo tutto io. La rabbia era così tanta che avevo voglia di distruggerle tutte le cose. Frantumarle. Farle a pezzettini. Come un foglio di carta strappato nella sua infinitesima parte fin quando non lo si riesce più a tagliare. Buttato poi in aria come coriandoli, giunto al suolo per essere calpestato come fanno i bambini piccoli con quel piedino che ripetutamente sbatte a terra, il movimento meccanico del piegare e allungare la gamba, braccia tese leggermente allargate concentrate sui pugni stretti, schiena curva sull’oggetto della distruzione, fronte ingrugnata, sguardo come a dire e muori. Poi alzano il viso. I lineamenti sono più distesi. Si girano e vanno a fare tutt’altra cosa, con un senso onnipotente di orgoglio e soddisfazione.
Accadeva frequentemente nella fase pre-adolescenziale, quando desideravo una vita comune normale, come tutti gli altri. Perché il volersi distinguere, l’essere originali, il differenziarsi è un processo che matura dopo, mai prima. Si vuole, semplicemente, essere conformi a. Una conformità che indica l’appartenenza a una comunità, a un gruppo, sia pure familiare, amicale. Sentendosi così protetti, in comunione, in armonia e ne sono stata privata. Esclusa. Emarginata.
Il corpo è un indicatore di armonia, saggezza, bellezza. Il mio doveva indicarne ben molto poco di questi requisiti a giudicare dagli sguardi rivoltimi: biasimo, pietà, disprezzo, scherno. Compassione talvolta. Poveretta nel migliore dei casi.
Rientravo a casa da scuola con l’eco delle burla in testa. Le risate, gli sfottò: umiliata, ferita, impotente. Col capo chino. Gratuito. Tutto gratuito. Aggratis.
Mi chiudevo nella mia camera dove trascorrevo le ore. Io e le quattro mura. Uscire era un lusso che non volevo permettermi e che, in ogni caso, non mi sarebbe stato concesso. Andare a fare shopping, la migliore delle tragedie greche. Le commesse, le commesse dei negozi, che non trovavano mai una taglia adatta. ‘No, ci dispiace… Arriviamo alla 44 ‘ E sempre quella commiserazione nei loro sguardi da capo a piedi, quello sguardo inquisitorio, quasi.
Non amavo molto leggere, mi annoiava, mi stancava. Solo qualche rivista che trattava di gruppi e strumenti musicali, o qualcos’altro di simile. Mi ci perdevo in quel mondo. Leggevo di Woodstock, dei figli dei fiori, della beat generation. Bob Dylan, Joan Baez, Janis Joplin. Passavo ore a tradurre i testi delle loro canzoni (l’avvento di internet e google sarebbe arrivato molto più tardi) ancor prima di averli ascoltati. La musica che dominava fuori era quella che imperversava nelle radio. Il pop dei primissimi anni ’80: Madonna, Michael Jackson, Duran Duran, Spandau Ballet. I nostri erano Al Bano&Romina Power, Toto Cotugno, Fausto Leali, Claudio Baglioni, Anna Oxa, FIOR-DA-LISO!!! Patty Pravo, De Andrè , Gaber, per i più esigenti. Ero così a cavallo tra due generazioni: la fine di una e l’inizio di un’altra. Dentro era tutto Woodstock-figli dei fiori-love&peace, fuori Madonna. Dualismo che allegoricamente e metaforicamente mi porto dietro come croce: sentirmi fuori luogo, in ogni occasione. Sempre, comunque e ovunque, in ogni dove.
Al quattordicesimo compleanno i miei mi regalarono uno stereo. Piatto con testina e puntina, doppia cassetta, radio, antenna. Alta tecnologia. Acquistai il mio primo vinile. Deep purple – Made in Japan, doppio, live. £ 14.000, una cifra ai tempi. Il suono di quelle chitarre elettriche aveva il potere di farmi estraniare da tutto e da tutti, da me stessa anche. Soprattutto. 
Dentro quelle quattro mura ballavo, cantavo a squarciagola, urlavo, contro l’ira dei miei e dei vicini. Un giorno ero a un concerto dei Doors, un altro a quello degli Iron Maiden, un altro ancora AC/DC. Poi non bastava più andare ai concerti: ero io Janis Joplin. Con il bastone della scopa come asta del microfono, jeans strappati, occhialoni scuri alle 6 di pomeriggio in pieno inverno, dentro la mia cameretta. Porta chiusa a chiave. Do not disturb, please: il genio sta operando. Ero, ovviamente, tossica, alcolizzata e… anoressica. Non riuscivo a portare a termine i miei concerti. Cadevo, svenivo, con l’asta del microfono addosso, il braccio destro teso e tumefatto (chissà poi perché quello destro dato che non sono neanche mancina): troppo fatta e strafatta. Accorrevano i miei musicisti preoccupatissimi, le guardie del corpo e la polizia. Lettiga-ambulanza-ospedale-letto-flebo. E là morivo, a 27 anni, entravo nel club dei dannati. Ma se riuscivo a portarli a termine -i miei concerti, il tuffo dal palco in mezzo alla marea di gente, non me lo toglieva nessuno. Acclamata. Osannata. Glorificata. Un orgasmo. Quando invece avevo la vena distruttiva ero Jimi Hendrix. Distruggevo le mie scope come le sue chitarre. E i lampadari nel mimare il gesto.
Nacque tra queste quattro mura l' attitudine tossica e tale rimase: un’attitudine. Non ho mai avuto un buon rapporto con le droghe anche se in seguito ne ho fatto uso e abuso. Di quelle leggere soprattutto. La coca l’ho tirata per un periodo, l’eroina la fumavo. Fumavo tutto io. Mi è sempre piaciuto molto fumare. Qualsiasi cosa, anche camomilla, the verde e alloro.
Cosa potevo fare fuori da questo mondo, a chi rivolgere la parola ammesso che avessi qualcosa in comune con qualcuno, che c’entravano con me? Era tutto di una banalità sconcertante.
Non avevo tempo da perdere per stare dietro alla ripetitiva e ossessiva monotonia di tutti. Li guardavo dall’alto della mia superiorità. A testa alta. Erano loro i poveretti, i meschini. Mai lo feci loro pesare.
Ero una star. Una star love&peace.
Tutto il resto era noia. Mortale.
Share: